Trap – Sorella Morte, datemi il tempo

Danza

Chi mi conosce sa che parlo poco e sono un’onesta, indefessa lavoratrice. Ogni giorno mi danno una lista di persone – mai corta, nemmeno nei dì di festa – alle quali devo fare visita. Io non ne sono entusiasta, ma anche da noi è arrivata l’informatizzazione: il titolare adesso mi dà una stampata da Excel, con indirizzo e ora dell’appuntamento ben incolonnati. Me li stampa in Ariel 16, perché con l’età…
Di solito vado lì, tiro una riga sul nome dell’eletto e buonanotte ai suonatori. Niente formalità, niente chiacchiere. Parlo poco, ve l’ho detto: mi vergogno dei miei denti storti e rovinati dal tempo. Noi femmine si tiene sempre all’apparire.
Ogni tanto, però, mi capita l’originale: mi vede, mi riconosce e vuole a tutti i costi attaccare bottone. Con me. Li conto sulle ossa di una mano, potete giurarci. La gente di me ha una paura tale che a volte penso: si guardano mai allo specchio? Certi cadaveri ambulanti…
Proprio ieri vado a casa di un tizio, un certo Andrea… Andrea Del Fabro. ‘Sto gran paraculo mi apre la porta, dà una sterzata con la testa per buttarsi indietro un certo suo ciuffo e mi sorride strizzando l’occhio. A me?! Un filino beffardo, se devo raccontarla tutta.
Gli puzzava il fiato di whisky (io sono astemia, figurarsi) e aveva uno sguardo che pareva non gliene fregasse niente di me.
“Prego, accomodati! – mi fa, quasi inchinandosi. – Gradisci un goccetto? E’ di quello buono, agli amici non servo robaccia da due soldi. Poi sortiscono idee balorde.”
M’ha preso in contropiede, son rimasta lì come una scema. Lui intanto era andato a un tavolo e aveva tirato indietro due sedie, offrendomene una. La bottiglia era lì, in compagnia di due massicci bicchieri.
“Ne tengo sempre uno in più, pronto per le visite impreviste. Tipo questa.”
Mi siedo, un po’ imbarazzata: non mi capita tutti i giorni che mi offrano del whisky. Sul punto di accavallare le gambe mi fermo: ho sempre paura che mi si vedano troppo. E le mie non sono di quelle che gli uomini ci perdono la testa. Per quanto, in un certo senso…
Fa per versare, ma lo fermo:
“No grazie, non bevo in servizio” sparo lì mentendo.
“Che brutta cosa da dirsi, specie da parte di una esperta della vita come te! Che ti perdi, cara la mia gran dama! Pazienza, berrò da solo. Alla tua salute! Sigaretta?” e me ne allunga una.
“Il fumo mi dà fastidio. E fa pure male” gli sibilo fra i denti, a quell’impertinente.
“Temi la tubercolosi ossea?” sogghigna sfacciato, alitandomi addosso quella sua voce che mi mette i brividi.
Non reagisco alla sfrontata provocazione, ma gli ribatto algida:
“Sono qui per lavorare, non ho tempo da perdere. Andiamo!”
“Eh, che smanie!” dice dietro il fumo che gli fa tremolare gli occhi “Senti, sorella Morte…” quasi cado dalla sedia, perché è dai tempi di quel giuggiolone di frate che più nessuno mi chiama così “…non ti aspettavo proprio per oggi. Nemmeno per domani, se la vuoi sapere tutta. Fosse per me, sarei anche pronto, ma… ma non ho ancora fatto testamento. Tu sei esperta di queste cose, sai come vanno: i parenti litigano, si creano dissapori nelle famiglie, fra gli amici. C’è sempre chi si sente tradito dal morto e magari ti manda all’inferno. Non porta bene, no?”
“Anche se il morto non aveva un soldo?”
“Non mi fare la venale, il materialismo non si addice a una filosofa par tuo. Ne ho, ne ho di cose da lasciare a chi penserà di essere più vivo di me.”
Prende una chitarra, tira fuori due accordi; poi apre un cassetto, ne cava un blocco per appunti, una biro mangiucchiata e comincia a scrivere. Parlando ad alta voce, quasi fosse affar mio.
“Dunque, vediamo un po’… Lascio in eredità una bella laurea da dottore commercialista a quei signori che appaltano le escort ai facoltosi avidi di compagnia tenera e succulenta. Con il preciso compito di informare settimanalmente l’opinione pubblica sugli introiti delle loro amministrate: è giusto che tutti sappiano chi fa realmente girare l’economia nel nostro Paese.”
imagesAspira dalla sigaretta come uno in debito di ossigeno; solleva il bicchiere dal tavolo e glielo restituisce meno pesante. Mordicchia il cappuccio della biro, poi torna a scrivere.
“Hai presente la mia amica Rosa Maria? No?! Che ti perdi… ha una bocca… Ops, scusami, tu sei una signora. Bon, la poverina non trova marito perché si dice in giro che sia larga di manica e pure di bocca buona. “Un’indecenza!” dicono i benpensanti. A lei lascio in eredità un preziosissimo consiglio: si faccia ricostruire chirurgicamente l’imene. Questo le spianerà la strada verso il matrimonio: trovare una vergine oggi è più difficile che centrare un sei al superenalotto. Quel che succederà dopo… me lo godrò dall’al di là: Rosa Maria non è un uccello da voliera.”
Vanifica una mezza sigaretta con un solo tiro, poi riattacca:
“Mai sentito parlare di Mimì la parigina? Un pezzo di f…” le mie orbite vuote lo risucchiano come un maelstrom gassoso “Scusa, è che uno ha qualche difficoltà a ricordarsi che, gira gira, sei pur sempre una signora. Anche Mimì era una gran… una gran signora, con una classe infinita e una bellezza da far vibrare d’invidia la Venere di Milo. La statua, intendo. La corteggiavano industriali, impresari, politici, uomini di spettacolo, cardinali. Lei si lasciava desiderare, li scatenava gli uni contro gli altri… e poi sceglieva. Spuntava sempre il miglior rapporto qualità/prezzo: il ricco più bello e più giovane del momento. Vita dispendiosa la sua: la manutenzione della bellezza prosciuga le tasche più che la siccità i fiumi. Però gli anni passano… passano gli anni, i mesi e se li conti anche i minuti… fotogramma dopo fotogramma si portano via bellezza e giovinezza. Restano i ricordi, che mettono solo malinconia agli uomini. Il maschio insegue nostalgie di verginità procace, rifugge la maturità della donna. Mimì è finita con le pezze al culo e… e non mi guardare con quella faccia da sgherro della buoncostume! La morte bigotta proprio non me la sarei mai aspettata. L’ho rivista pochi giorni fa davanti al Duomo, raggrinzita, quasi piegata in due: vendeva per pochi centesimi immaginette della Vergine Maria e di sante famose per la loro virtù. Lei che si era illusa di vivere alla grande mercanteggiando sulla sua. Fortuna, non mi ha riconosciuto… A lei lascio i diritti d’autore per la canzone che un mio caro amico trarrà da questo testamento. Come lo so? Cara sorella morte, il mio diavolo custode mi ha svelato alcune cosette sul mio futuro… tranne il tuo arrivo prematuro, il bastardo cornuto.”
Cioè, io sono la Morte, mi degno di venirti a prendere, te che ti puzza l’anima di whisky e nicotina… e tu mi tiri in giro con storiacce di puttane e papponi?! Guarda che io, se mi girano le rotule…
1Si rende conto del mio stato d’animo, perché l’uomo, abbassando gli occhi, prende in mano la chitarra e strimpella e canta. Canta con quella sua voce che mi entra nelle ossa, me le scalda, mi lubrifica le cartilagini. “Attenta – mi dico – già qualcuno ti ha fregato cantando!” Ma sentitelo, sentitelo:
“Sorella morte lasciami il tempo
di terminare il mio testamento
lasciami il tempo di salutare
di riverire di ringraziare
tutti gli artefici del girotondo
intorno al letto di un moribondo.”

Il mio sguardo sarà anche vuoto, ma gli deve trasmettere un po’ di sconcerto, perché mi sorride imbarazzato:
“E dai, lasciamelo almeno immaginare che non morirò solo come un cane. Sarò circondato da personaggi forse un po’ strani, ma che saranno lì solo per me. E vuoi che non lasci a tutti qualcosa? Prendi la vecchietta del terzo piano, quella che tutti chiamano ‘contessa’. Passa le giornate a studiare i numeri per il superenalotto: chiede a tutti la data di nascita, il numero di scarpe, il peso, la targa… e poi ci fa sopra conti su conti (contessa…) che meriterebbero miglior destino. Si gioca quei pochi euro di pensione che le avanzano, ma non ne azzecca mai una. Già me la vedo… sto per spirare… fra le lacrime degli astanti (un’immagine che fa sempre colpo)… ‘Era così giovane… così buono… un po’ musone, ma non faceva male a nessuno… una pizza con quei quattro accordi di chitarra a ogni ora del giorno… però non sbatteva mai la tovaglia sul balcone degli inquilini del piano di sotto, come certi che dico io…’. Lei invece lì, compunta, silenziosa, raccolta; non schioda un secondo. Ogni tanto mi si avvicina all’orecchio e biascica: ‘Vero che quando (Dio non voglia!) sarai morto, verrai in sogno a darmi i numeri della sestina vincente? Sono una povera vecchietta senza mezzi, lo sai. Tanto, a te che ti costa? Prometto che verrò a trovarti spesso al cimitero. Se muori – si fa per parlare, bada! – ti porterò anche i fiori.’ Me lo ripete almeno ogni mezz’ora, si allontana solo per fare pipì. Mi fa anche un po’ schifo, con tutti quegli sputacchi che mi deposita nelle orecchie. Sai che farò, sorella?” La falce mi ondeggia per conto suo. “Anzi: che faremo. Tu mi detti i numeri della sestina vincente (una bazzecola, per te) dell’estrazione che si terrà al quinto turno dopo la mia morte. Gliela faremo trovare in busta chiusa allegata al testamento. Con queste precise istruzioni: saltato il primo turno dopo la lettura delle mie volontà, dovrà giocare i numeri per tre estrazioni consecutive. Dieci euro a colpo. Con la complicità dei miei nuovi connazionali, i diavoli, i sei numeri usciranno tutti, ma due per concorso. Il turno successivo costituiranno invece la sestina vincente: hai presente lo spasso!?”
Però, a vederlo non lo facevo così perfido, ‘sto moscio. Mai fidarsi delle acque chete. Lui pure dev’essere uno che non si fida molto dell’acqua, perché insiste a ingollare whisky dal suo bicchierone. Quella bottiglia sì e no lo accompagna fino alla fine del testamento, se va avanti di questo passo.
“C’hai mai pensato?” tira avanti lui, che l’alcol ha ormai sfrenato “Il becchino è quella tal persona per le cui mani tutti prima o poi passiamo. Puoi morire senza essere mai stato dal medico o sfiorato da una tonaca incensata, ma al beccamorti non si scappa. Sarà proprio per questo senso di fatalità che il suo lavoro fa storcere il naso a tutti? Io invece ti dico” alza il tono della voce “che dovrebbe essere visto come un maestro di vita, che ci addita costantemente la meta comune: la morte.”
Posso farci niente: mi scatta l’applauso, comincia a restarmi simpatico questo filosofo sotto spirito. Mi rende giustizia. Uno come lui è davvero sprecato in questo mondo di umani deliranti: prima me lo porto via, meglio è.
Perfino troppo sveglio: questo mi legge nel pensiero.
“Calma, sorella: ricorda che la calma è la virtù dei morti. Dicevo del becchino: proprio perché il suo lavoro gode di scarso fascino, io gli voglio fare un lascito: questa bella spilla placcata oro che riproduce una piccola vanga. Incisa sul retro, la frase: ‘Vanga il tuo regno’. Gliela appunterei personalmente sul petto, ma presumo tu non sia d’accordo.”
Verissimo, e vedi un po’ di spicciarti: ci sono altri che mi aspettano, anche se non lo sanno. Vede che mi sto adombrando e… lo sai che fa, il perfido? La mette sul sentimentale.
“Non t’inquietare, sorella morte: a breve i becchini rovesceranno sulla mia bara l’ultima palata di terra fresca e tu sarai finalmente libera. Io, là sotto, immobile; tu in perenne movimento, ma sempre un passo indietro rispetto alla vita, perché il giorno che morirà la vita sai bene che anche tu sarai morta.”
Vorrei toccarmi, ma il galateo me lo vieta; mi limito a ripiegare il medio e l’anulare di entrambe le mani. Di nascosto. Lui non tace.
“Può darsi che in quel momento, dopo che tu avrai girato le spalle, un occhio – uno solo – di una donna – una sola – versi una lacrima – una sola – sulla mia tomba. Tanto mi basterà: un sorriso, uno solo, verrà a galla dalle viscere dei miei ricordi. Purtroppo… ma sì, inutile nasconderlo: purtroppo, non avrò modo di ringraziare quella lacrima, quella donna. E allora lascio scritto in questo testamento: il mio cuore presto marcirà, andrà a ingrassare i vermi, che a loro volta renderanno fertile la terra con la quale mi sarò fuso. In quella terra grassa il vento lascerà cadere polvere, frammenti, molecole senza patria né storia. Chissà che un seme, anche uno solo, non trovi domicilio proprio lì, dove il mio cuore si è squagliato. Ricordi? ‘… dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior…’ Me la vedo già, una rosa color passione, che semina scandalo fra i crisantemi benpensanti e gli altri lugubri fiori da cimitero. Mi ascolti bene, signor notaio” con tono da ubriaco solenne “i petali di quel miracolo di natura dovranno volare tutti, uno dopo l’altro, sul corpo di quella donna. Di quella donna che, unica, avrà sprecato una lacrima per me. Ogni volta che il suo cuore pulserà, un petalo della rosa si aggiungerà agli altri, intrecciando su lei un abito senza pari.”
Che birbone! Se va avanti così, sarò io l’unica femmina a lasciar cadere una lacrima sulla sua tomba. Perché è troppo furbo per sperare di commuovermi e rimandarmi indietro a mani vuote. Eccolo lì che mi guarda con quel suo sorriso malinconico e sornione. In fondo – e mi costa ammetterlo, eh – provo dell’ammirazione per lui: sta morendo solo come un cane, senza nessuno con cui scambiare un’ultima parola. Fuori che me. Eppure non impreca, non prega, rifugge con orrore la messa in scena della pietà. Non lascia in eredità né ricchezze né verità. Perché adesso mi punta l’indice contro?
“Dimmi se sbaglio, signora Morte: quando i destinatari di questo testamento conosceranno i miei lasciti, sai le incazzature che si prenderanno?! Chi innalzerà vibranti proteste perché si riterrà offeso dalla mia generosità, e chi reclamerà piagnucoloso perché non gli avrò lasciato nemmeno un refolo di vento in una giornata d’afa.” Con tono pomposo: “Postilla al testamento: cari tutti quanti, avete poco da mandarmi al diavolo o all’inferno. In primo luogo, perché esistono solo nelle vostre paure; in secondo, perché ci sarò già andato di mio.”
Tace, lo sguardo che mette a nudo la notte, quasi a procurarsi un’ultima scossa ai nervi prima di formattare la sua vita.
Poi mi strizza l’occhio e riprende con un sorriso ancora una volta beffardo:
“I conti con il passato li abbiamo chiusi; in attivo o in passivo, è una questione che non può certo farmi perdere il sonno. Nei buchi neri delle tue orbite, sorella Morte, vedo ammassati i fratelli che mi hanno preceduto. Tanti nemmeno li conosco; di altri reco graffi nella memoria, più o meno sanguinanti. Scorgo i compagni delle baldorie, delle cantate nelle osterie, quando il vino colava a picco nei nostri cervelli in tempesta e il mondo ci pareva uno sghignazzo che non doveva finire mai. Il vino, le donne: abbiamo tracannato dalle stesse bottiglie, ci siamo tuffati a ripetizione nelle stesse voragini, dove i nostri corpi si perdevano sicuri che qualcuno li avrebbe sempre riportati a galla. Abbiamo gioito insieme; insieme inarcato le schiene sotto le frustate del dolore, delle sconfitte, delle perdite. Vincemmo e perdemmo, insieme.
Il mondo ci sembrava stesse tutto nelle nostre mani, tutto ai nostri piedi: bastava che noi fossimo insieme. Eravamo in tanti, ma eravamo uno solo. Poi voi” punta l’indice destro, malfermo, contro fantasmi “avete cominciato a morire, mi avete lasciato sempre più solo. Per sopravvivere ho dovuto indossare la corazza, difendermi dalla vita sbeffeggiandola. Sempre più solo. Con voi, che mi aspettate a frotte nel fondo di quelle orbite implacabili, ne abbiamo fatte, ma tante! Di tutti i colori, odori e sapori.
Ma non crogiolatevi in questi effluvi di ricordi, non vi servirà a nulla, non limerà di un grammo il peso insopportabile della verità che si apprende morendo: quando si muore si muore soli.”
Ora tace, lo sguardo forse più vacuo del mio. Non lo reggo così; non lui. Mi avvicino, gli afferro una mano e gliela porto in alto. Gli passo un braccio dietro le spalle e mi stringo a lui.
Con un valzer molto lento lo guido verso la porta, la sua testa sulla mia spalla. Sento le lacrime, ma non gliene chiedo conto.
Scivoliamo nel nulla su note che il vento rapisce chissà dove:
“Vola il tempo lo sai che vola e va,
forse non ce ne accorgiamo
ma più ancora del tempo che non ha età,
siamo noi che ce ne andiamo”
.

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